GIU’ GLI ESAMI

(Trilogia dedicata a tutti gli scolari del Regno)

Ragazzi!

Mettiamo per un momento la politica da parte, e parliamo di cose pulite.

Parliamo, per esempio, degli esami finali nelle scuole.

Voi forse mi domanderete:

Chi fu il primo che inventò questa burletta malinconica degli esami? –

Fino a ieri, confesso la mia buaggine, io non m’ero mai curato di saperlo, per quella medesima ragione che non mi sono mai curato di sapere chi abbia inventato le pipite, i fignoli e le mosche cavalline.

Oggi lo so: e lo so perché me l’ha detto un mio bravo amico: il professor Guido Ruffino.

Questo Ruffino, che è un propugnatore strenuissimo dell’abolizione degli esami ( ragazzi! cavatevi il cappello e salutatelo! ) racconta che gli esami furono messi su da Irnerio, professorer di diritto romano all’Università di Bologna, nel secolo XII: il quale stabilì le regole e il rito per il conferimento della nuova dignità del dottorato. E dalla Università di Bologna, la usanza degli esami per il dottorato passò alle Università di Francia e d’Inghilterra, e poi nel restante d’Europa.

E ora, ragazzi, che avete saputo il nome dell’inventore degli esami, ve lo raccomando caldamente nelle vostre sante orazioni. Non lo dimenticate per carità!

Intanto, coll’andare del tempo, accadde quello che doveva accadere: cioè (come afferma il Ruffino) si cominciarono a mercanteggiare i titoli ( pare che la storia dei capponi regalati ai maestri e agli esaminatori sia più antica degli stessi capponi!), sicchè gli esami erano diventati illusori al segno, che da tutti gli ingegni arguti e satirici venivano sberteggiati e posti in canzonella.

Come rimediare a questo scangèo? Fu pensato di aggravare la mano, e di rendere gli esami più difficili, più rigorosi, più sorvegliati. Tutta fatica buttata via. L’acqua è andata sempre alla chiusa, e anche oggi, anche ai tempi presenti, si potrebbe giurare, dice il mio bravo amico, che di tutti gli alunni dichiarati idonei ad un esame, un terzo appena deve al proprio valore l’esito felice di questo esperimento.

Perfino il Giusti, che, prima di esser poeta, fu scolaro a Pisa, ha scherzato giocosamente su quella facilità che hanno quasi tutti gli studenti che non hanno mai studiato, vale a dire la facilità di

Beccarsi in quindici

Giorni l’esame

In barba all’ebete

Servitorame

Degli sgobboni

Ciuchi e birboni.

Quel beccarsi, per chi se ne intende, vale oro quanto pesa. È un verbo che par coniato apposta per significare la serietà e la maestà di tutti gli esami passati, presenti e di là da venire!

Che cosa ha fatto il Ruffino?

Il Ruffino par quasi che abbia preso per testo quei versi del Giusti, ed ha scritto una quarantina di pagine ragionatissime e concludenti, per dimostrare la utilità e, sterei per dire, la moralità di abolire gli esami.

Gli esami, come si fanno oggi nelle scuole, non danno mai, o quasi mai, il valore giusto dello scolaro; gli esami, come si fanno oggi, riescono, nella maggior parte dei casi, o una ciurmeria volgare o un gioco di fortuna e di prontezza di spirito.

Ho detto ciurmeria, e mi spiego colle parole dell’amico. Chi è di noi che, avendo bazzicato da ragazzo qualche sala di esami, non ricordi, ridendo, la storia dei panini gravidi di questi risoluti, dei dispacci che corrono sull’ammattonato in forma di pallottoline di carta, delle formule scritte col lapis sulle unghie e sul fazzoletto, e dei mille e mille artifizi suggeriti dalla scaltrezza e dalla audacia degli scolari, i quali sanno benissimo ched tutto l’esito dell’annata scolastica dipende da quell’unica prova?

Qualcuno forse osserverà che il maestro, conoscendo la forza dei suoi discepoli, è in caso di accorgersi delle marachelle e di sentire da lontano l’odore del contrabbando.

Davvero?

A buon conto, non bisogna dimenticare che in certi esami, come sarebbero quelli di licenza liceale, vi sono molti giovani estranei alle scuole pubbliche, la capacità dei quali essendo affatto ignota all’esaminatore, questi non è in grado di giudicare se il loro lavoro sia apocrifo o no. E se l’esaminatore non ha le prove di fatto per giustificare i suoi dubbi, non può annullare il lavoro; e se il lavoro è fatto bene, dovrà approvarlo.

E così lo scolaro, sebbene ignorantissimo, esce fuori vittorioso con tanto di laurea e di patente: e così la terra si popola sempre più di avvocati che si buttano a far l’impiegato governativo, o il deputato, perché non sanno una parola di legge; di medici, che rubano il pane ai dentisti e ai pedicuri, perché non hanno studiato medicina; di professori liceali, che insegnano geografia, ragionando di pasticci di Strasburgo e di vin del Reno, e di maestri di scuole primarie e secondarie, che confondono in buona fede le lenti ustorie di Archimede con quelle della zuppa biblica di Giacobbe.

E quando gli esami non sono una ciurmeria, ho detto poco fa che, in moltissimi casi, si chiariscono per un gioco di fortuna e di prontezza di spirito.

Accade quasi sempre, difatti, che gli scolari disinvolti e audaci, anche se hanno studiato poco e a malincuore, arrivati agli esami, ci fanno, per il solito, miglior prova di tutti gli altri, anche di quelli che hanno studiato assiduamente e bene.

Ma la disinvoltura e l’audacia sono doti che non toccano a tutti.

Avete un bel dire agli scolari, vicini all’esame, che non abbiano paura; che la paura è a carico; che la paura è una tara che lo scolaro fà a sé stesso.

La paura non si può lasciare a casa, come si lascia il cane; e il coraggio non si insegna e non s’impara.

A ogni modo, se il povero esaminando s’impappina, tanto peggio per lui e per la sua famiglia. Abbia pure studiato come un martire tutto l’anno; abbia pur mostrato diligenza e profitto su tutti i suoi compagni di scuola…che importa? All’interrogatorio dell’esame orale non ha risposto bene a tutte le domande: gli è toccato un misero !…dunque non sa: dunque non passerà!

Ecco la logica degli esami!

 

 

Ma che serve andar per le lunghe? Occorrono forse maggiori parole, per dimostrare che gli esami, fatti come si fanno oggi, meritano davvero il nome di farse inutili e di esercizi acrobatici, come li chiama il Ruffino?

Giù gli esami! E si sostituisca invece un principio più logico e più pratico; quello cioè della investigazione del merito sul lavoro quotidiano.

E di questo terrò parola nell’ultimo canto.

 

 

…..di legge non ebbe il tempo di fiorire, perché….perché il giusto cade sette volte il giorno, e i nostri ministri, che sono buoni si, ma giusti no, cadono in media quattordici volte l’anno, e quindici negli anni bisestili. Se ogni caduta lasciasse un livido, gli uomini di Stato italiani dovrebbero essere neri come tanti calabroni.

Entrate in una scuola, dice il Ruffino, pigliate in mano i quaderni degli scolari, sfogliateli, e voi vedete subito che differenza passa fra una scolaro e l’altro; voi vedete subito quali sono i diligenti e i buoni, e quali i negligenti e i ciuchi ( con rispetto parlando ).

C’è di più: con la scorta di quei quaderni, voi avete anche il modo di giudicare del valore del maestro; o per dirla in quella lingua che si chiama povera, forse perché è intesa da tutti, voi pigliate due piccioni con una fava.

Quanto poi ai saggi scritti e orali da ripetersi ogni mese, oppure ogni due mesi, essi servirebbero non solo di controprova, ma sarebbero il complemento della coscienziosa investigazione fatta sui lavori scritti e diligentemente conservati nel piccolo archivio della scuola.

Così si costuma anche in Inghilterra, nelle scuole secondarie, dove il passaggio da una classe all’altra non dipende da un esame, ma è invece, come dicono gli abbachisti, un affar di cifre: così si costuma anche per i passaggi di classe nei nostri ginnasi e licei.

Ora io domando: se il sistema ha fatto buona prova, perché non si potrà egli adottare come sistema generale in tutte le scuole, in tutte le licenze, in tutte le lauree?

Questa domanda si capisce bene che non aspetta risposta.

Certi controsensi bisogna lasciarli lì come sono.

Studiarsi di spiegarli, di commentarli e di giustificarli, torna lo stesso che sciuparli e renderli grottescamente buffi. Tanto varrebbe mettere una parrucca bionda e le ali d’angiolo al porco di Sant’Antonio, coll’intenzione di farlo passare per un cherubino.

 

……serissimo e un argomento inconfutabile della varia capacità degli alunni.

Ma qualcuno dirà:” Mio buon Gesù! Anche i maestri sono uomini come tutti gli altri; anche i maestri patiscono di simpatie e di antipatie; anche i maestri somigliano ai confessori di monache; oggi con questa monaca sono sofistici e taccagni; domani con quell’altra hanno maniche larghe…molto larghe….tanto larghe, che un peccato mortale ci passerebbe comodamente, senza aver bisogno nemmeno di chinarsi e di abbassare la testa”.

E sia pur come dite.

Bisogna per altro sapere, che, nel giudicare il mio prossimo, io vado a rovescio dei tribunali. I tribunali tengono l’imputato per colpevole fino a tanto che, per merito suo o dei suoi giurati, non s’è chiarito innocente; io poi, viceversa, ritengo l’uomo per un galantuomo, fino a tanto che non mi s’è dato a conoscere per un pocodi buono, o per un uomo debole di ginocchi e proclive alle cadute, come i cavalli degli omnibus e delle vetture di piazza.

E perché dovrei dubitare, a caso vergine, dell’onestà e dell’imparzialità dei pubblici insegnanti?

Poche eccezioni non hanno mai fatto una regola.

A buon conto, i maestri delle pubbliche scuole non si pigliano alla macchia come i pettirossi. Prima di accettarli e di metterli al posto, se ne stacciano le doti dell’animo e dell’ingegno.

Può darsi, non dico di no, che qualche maestro alla vigilia di un esame finale e concludente mi ciurli un po’ nel manico: ma non so rassegnarmi a crederlo capace di mantenersi ingiusto, parziale e tristo per tutti i trecentosessantasei giorni dell’anno solare. Sarebbe uno sforzo titanico: sarebbe la tredicesima fatica d’Ercole, s’intende bene, d’un Ercole birbante e galerabile senza processo.

Noi, dunque, secondo il Ruffino, abbiamo diversi modi per giudicare, con giustezza di criteri, l’opera degli scolari e dei maestri: abbiamo, cioè, i lavori quotidiani, i saggi mensuali o bimestrali, e il registro o giornale della scuola.

I furbi forse bisbiglieranno. Ma chi ci assicura che i ragazzi non trovino il verso di guadagnarsi indebitamente dei buoni punti, facendosi aiutare nei lavori scritti a casa da chi ne sa più di loro? Chi ci assicura che i saggi mensuali o bimestrali non diventino una panzana, per darla ad intendere alla gente di buona fede? Chi ci assicura che il registro o giornale della scuola dica sempre la verità, tutta la verità, e nient’altro che la verità, come se fosse dinanzi al presidente della Corte d’Assise?

Egli è appunto per acquietare tutte queste paure, che si pensò all’istituzione di un comitato di vigilanza: il qual comitato, come già è stato detto, dovrebbe esser composto di persone scelte fra i parenti degli scolari, e presieduto da un’ autorità scolastica, come il regio provveditore, o l’ispettore, o l’assessore comunale per la pubblica istruzione.

Si ebbero finora la famose Commissioni scolastiche, che scombussolarono ogni cosa: perché dunque, non vorremo far la prova di questi comitati, istituiti a immagine degli schools boards inglesi?

I componenti di questi comitati, è facile figurarselo, attenderanno con amore e con opera intelligente e assidua al buon andamento di quelle scuole, dove studiano i loro figli.

–  Vi attenderanno forse anche troppo! – bisbiglierà qualche maligno – e pur di assicurare la buona riuscita dei loro ragazzi, lasceranno che le classificazioni diventino taglierini fatti in casa com’ebbe a dire quella lingua a due tagli di messer Francesco Domenico Guerrazzi.

Adagio Biagio, – rispondo io per l’amico Ruffino; – per arrivare fin lì, bisognerebbe che fosse di balla anche il presidente, e che egli pure si prestasse compiacentemente a questa invereconda burletta, che, divulgata in pubblico, piglierebbe il nome di grossa immoralità.

E per non perdermi in altre lungaggini, io mi riepilogo e dico: non vi pare che questo sistema sia più logico, più pratico, più equo, più utile di quello degli esami finali? E non credete che varrebbe la spesa di farne l’esperimento?

Io credo di si.

Io credo di più che, una volta sperimentato, ci sarebbe il caso di dover dire, come quel papà che, a ottant’anni suonati, volle provare a farsi mettere il fuoco a letto: ”Era meglio se avevo provato prima!”.

Strilleranno le oche; ma i Galli non saliranno in Campidoglio, e la pace regnerà nella scolaresca e nella famiglia.

Testo tratto da (Note Gaie – Carlo Collodi)

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